Dino Amadori
1937 - 2020
Medico e scienziato
Il 23 febbraio 2020, mentre si trovava all'estero, è scomparso improvvisamente il prof. Dino Amadori, Direttore scientifico emerito IRST IRCCS e Presidente dell’Istituto Oncologico Romagnolo (IOR).
Per descrivere il suo lavoro, l’importanza che ha avuto in ambito medico e scientifico e il valore umano della sua professionalità e della sua dedizione, riportiamo alcuni stralci dei commenti firmati dallo IOR e dall’IRST di Meldola – le sue due creature – in occasione della sua morte. In chiusura, a rappresentare il suo essere e il suo pensiero, l’ultimo discorso pronunciato da lui stesso ai volontari dello IOR in occasione del quarantesimo della fondazione dell’Istituto.
«Dobbiamo continuare a immaginare e costruire il futuro mettendoci anima e coraggio. È difficile, ma se devo trovare una sintesi di quello che è il compito affidato all’Istituto Oncologico Romagnolo dal prof. Amadori non mi vengono in mente parole migliori di queste.
“Immaginare”, perché è il segno del suo pensiero curioso e indagatore, che gli faceva percepire in anticipo i bisogni e intravedere i possibili scenari da mettere in campo per rispondere alle rinnovate esigenze.
Occorre avere quindi maggiore attenzione e tenere sempre un piccolo spazio per sognare.
“Costruire” era il suo agire quotidiano: un’intuizione è nulla se non ha il passo della concretezza e del lavoro paziente.
Quindi niente voli pindarici disordinati e senza metodo.
Il “futuro” era lo stimolo. Il Prof non si fermava alle tante cose fatte ma alle buone idee che dovevano essere ancora realizzate, mettendosi sempre in discussione, cercando di essere pronti al cambiamento e rifuggendo l’autoreferenzialità.
“Anima”, perché ogni passo veniva scandito da un profondo rigore morale e scientifico e una certezza etica che attraversava come un filo rosso la sua opera. Ricordarsi sempre il valore unico della persona: questa rimane la bussola di ogni nostra azione.
“Coraggio”, quello indomabile che lo faceva sorridere di fronte a problemi che a noi sembravano insormontabili. Non un gesto d’incoscienza, bensì un’ironia che scaturiva dalla certezza dello scopo e dalla consapevolezza che, insieme, se ci crediamo, è possibile realizzare qualsiasi cosa.»
(da L’Informatore, giugno 2020)
«Dino non si è mai sottratto al suo essere anzitutto medico, diremmo il medico di una volta, capace di sorridere, di rassicurarti, di ascoltarti, di proporti un percorso di speranza con parole comprensibili per tutti. Ma è stato un medico scienziato, che non ha mai smesso di studiare e di indagare i tumori con umiltà pari alle straordinarie qualità di ingegno e di capacità di lavoro. E altresì un medico organizzatore e promotore di legami, percorsi, protocolli. La sua creatura, la sua casa profonda è stato l'Istituto di Meldola, un gioiello tenacemente pensato, disegnato, praticato sin dalla costituzione dell'Istituto oncologico romagnolo. E infine un medico con una singolare capacità di fare squadra e di dirigere senza essere mai ingombrante. (…)
Profondamente legato al suo territorio e alla sua Regione come forse soltanto i romagnoli sanno esserlo, era cittadino del mondo, capace di attenzioni verso i più deboli e gli ultimi: ne sanno qualcosa, oltre che gli innumerevoli suoi pazienti italiani, i grandi e i piccini della Tanzania presso i quali si recava appena poteva.»
(Renato Balduzzi, Presidente del Consiglio di amministrazione dell'Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori – IRCCS)
«Mentirei se dicessi che non sono emozionato. Sono emozionato perché ho quarant'anni di più di quando ne avevo quando abbiamo fondato lo IOR: spero di esserci anche al cinquantesimo anniversario dell'Istituto, visto che l'età media sta aumentando spaventosamente ed io vorrei essere nel canale di quelli che vanno avanti. Quante persone, quanto bene è stato fatto in questa realtà territoriale, quella della Romagna che, non mi stanco mai di dirlo, è una delle terre più generose che abbia mai conosciuto. Sono altrettanto convinto che la realizzazione dello IOR non sarebbe stata possibile in altra parte del mondo se non da noi. Quel luglio del 1979, quando 12 persone, forse un po’ ingenue ma piene di entusiasmo, si recarono dal notaio De Simone per l’atto di fondazione, non avremmo mai immaginato che a quarant'anni di distanza quella che era una cooperativa sia pure senza fini di lucro, un'iniziativa benefica, sarebbe diventata un popolo. È un popolo perché ha assorbito i valori che l'Istituto ha cercato di trasmettere nel tempo: li ha fatti propri, li vive e in qualche modo li impone.
Perché facemmo lo IOR nel 1979? La ragione è molto semplice: c'era un contesto epidemiologico preoccupante in Italia. Seimila nuovi casi di tumore ogni anno; più di tremila morti; soltanto il 40% di quelli diagnosticati sopravviveva cinque anni libero da malattia. A fronte di questa massa incredibile di pazienti c'era una realtà organizzativa sanitaria del tutto deficitaria, quindi uno che avesse avuto intenzione di impegnarsi nel settore o sarebbe andato via o sarebbe rimasto a cercare di fare il massimo possibile. Io sono rimasto: sono rimasto perché ho trovato in alcuni amici di quel tempo la collaborazione, l’intelligenza, la volontà, la generosità di lavorare per migliorare le cose. Ci ponemmo degli obiettivi molto ambiziosi: obiettivi di assistenza, potenziamento delle tecnologie nei singoli reparti, disponibilità di risorse umane per coloro che dovevano affrontare giorno per giorno la cura e dei malati oncologici. Realizzammo un Registro Tumori per conoscere meglio la realtà del territorio; attivammo l'assistenza domiciliare ai malati in fase critica, che allora erano veramente dei diseredati, ai margini della medicina. Nei reparti di elezione questi pazienti stavano dietro un paravento: il medico passava a vederli pro-forma, quasi mai si fermava a visitarli perché non c'erano strumenti di cura. Erano pazienti destinati, purtroppo, a morire nella maggior parte dei casi. Allora il modo più “umano” per assisterli in modo adeguato era quello di portarli a casa.
Qualità di cura, umanizzazione della medicina, buona ricerca han permesso a questo territorio di avere ai primi anni Novanta uno dei migliori sistemi sanitari oncologici del nostro paese, tanto è vero che fin da allora e ancora oggi la sopravvivenza per tumori maligni in questo territorio è la più alta in Italia e in Europa e tra le prime nel mondo. Questo è dovuto sicuramente alla grande sinergia fra l'oncologia da un lato e il sistema sanitario nazionale dall'altro. Questo sistema sanitario nazionale difendiamolo a denti stretti, esso è uno dei valori del nostro paese che ci invidiano tutti. Abbiamo fatto l’IRST che, nel 2012, avendo fatto domanda di riconoscimento di Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, con un atto firmato dal prof. Renato Balduzzi è stato riconosciuto come IRCCS. Oggi l'Istituto vede 20.000 nuovi casi all'anno, al suo interno vi operano 60 oncologi medici, 50 ricercatori biologi e di base. Da cinque anni è fra i primi Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico italiani come performance assistenziale e di ricerca.
Direte: «Bene, siamo arrivati: ce l'abbiamo fatta!». Sicuramente il sistema oncologico della Romagna oggi può dire veramente di essere fra i primi d'Italia, però io non sono sufficientemente contento. Non basta: questo territorio può dare di più, può fare molto di più. Ricordiamoci che siamo di fronte a un fenomeno enorme, quello del cancro. Pensate che nel mondo, oggi, abbiamo circa 14 milioni di nuovi casi di tumore ogni anno, proiezione 2030 22 milioni; 8 milioni di morti annue, proiezione 2030 13 milioni. Questi numeri saranno implementati dal cancro che si svilupperà nei paesi a basso income, perché i fattori di rischio tipicamente occidentali e quelli locali si stanno sommando creando delle situazioni veramente esplosive rispetto al rischio di ammalarsi e di morire di questa malattia, visto che in determinate nazioni le cure non ci sono. Quando noi ci lamentiamo del fatto che forse l'ultimo farmaco ci arriva un po’ in ritardo rispetto all'Europa facciamo bene: ma è come chi si lamenta perché gli fanno male i piedi dovendo camminare senza scarpe rispetto a chi non ha i piedi per camminare.
Dobbiamo ricordarcelo perché un elemento che non si può assolutamente dimenticare è quello della solidarietà. Lo IOR ha portato questo valore vissuto tutti i giorni, e qui voglio citare Papa Francesco, il quale se n'è uscito alcuni mesi fa con questa affermazione: «L’indifferenza è il virus che contagia gravemente i nostri tempi». Se questo è vero, mi domando quale sia la patologia che esso provoca. È il disinteresse verso gli altri, la chiusura verso i bisogni altrui, lasciare che una parte importante dell'umanità muoia di fame. Questo è il prodotto dell'indifferenza: e qual è la cura di questa malattia se non la solidarietà, se non aprire il nostro cuore a chi ha bisogno, se non dare a chi soffre il nostro contributo, se non mettere insieme i governi del mondo per occuparsi in modo serio della fame e dell'indigenza dei paesi sottosviluppati? Questo è quanto credo che tutti dobbiamo fare perché è la solidarietà la salvezza e il valore principale di un nuovo Umanesimo, che faccia della solidarietà stessa il suo punto di riferimento per contrastare questo dissolvimento dei valori, questa conflittualità perenne e queste grandi disparità nei mezzi di sostentamento.»
(prof. Dino Amadori)
Il sostegno fino ad ora ricevuto
IN MEMORIA DI LIVERANI GASPARA